Intervista al nuovo Garante dei dei diritti delle persone private della libertà personale
La settimana scorsa, il dottor Antonello Unida è stato votato nel Consiglio comunale di Sassari come nuovo garante dei diritti delle persone private della libertà personale.
La scelta è stata fortemente criticata da una parte dell’opposizione e non sono mancati post denigratori e accuse sui social. A noi ha rilasciato un’intervista in cui si è parlato di varie tematiche relative al ruolo che gli è stato assegnato.
La figura di garante dei diritti delle persone private della libertà personale è stato istituito a Sassari grazie alla sua battaglia in consiglio provinciale. Quali sono stati i passaggi che hanno portato l’amministrazione alla creazione del ruolo?
– Durante la mia esperienza da consigliere provinciale, a Roma venne istituita la figura del garante dei detenuti (oggi diventata “garante delle persone private della libertà) durante la giunta Veltroni.
Ho ritenuto doveroso fare in modo che anche a Sassari ci fosse quella figura, perché all’epoca i detenuti vivevano in condizioni al limite nel carcere di San Sebastiano e sono ancora nitidi i ricordi dei fatti accaduti nel maggio 2000.
Quindi portai all’attenzione dell’allora presidente del provincia, Franco Masala, e del sindaco di Sassari, che all’epoca era sempre il prof. Nanni Campus, che accolsero la mia istanza.
Da allora, secondo lei, sono migliorate le condizioni dei detenuti?
– Sicuramente è migliorata da un punto di vista logistico: si è passati da un carcere dell’Ottocento a uno di nuova generazione, quello di Bancali. Per il resto, sembrerebbe che però le condizioni non siano cambiate, come farebbero pensare alcuni articoli della carta stampata.
Qual è proprie del garante dei diritti delle persone private della libertà personale?
– Il garante ha il compito di essere un collegamento tra il mondo carcerario e il cosiddetto mondo civile esterno.
Quanto ancora è forte il pregiudizio verso i carcerati che cercano di reinserirsi una volta usciti dalla prigione?
– Tantissimo. Chi esce di prigione si porta dietro un marchio pregiudiziale. Invece, citando la filosofia greca, si dovrebbe attuare l'”epoché“, che significa “andare nella sospensione del giudizio”. Quindi, lasciare da parte i preconcetti, dare la possibilità all’ex detenuto di reinserirsi nella società e vedere se ha la capacità di essere redento. Questo perché fin troppo spesso si cancella la dignità ai detenuti e si dimentica che si tratta di un essere umano.
Che idea ha del modello carcerario vigente?
– Ancora non sono entrato fattivamente nel ruolo di garante, ma il 9 novembre, è stato pubblicato su La Nuova Sardegna un articolo in cui viene stilata una sorta di documento finale del precedente garante.
Secondo quanto si legge, c’è molto da lavorare, partendo dalle cose semplici, come sistemare gli impianti idrici, offrire la possibilità di un costante avvicinamento dei detenuti ai propri familiari, collaborare con gli assistenti sociali e le associazioni di volontariato che, a quanto si dice, sono messe un po’ da parte.
Il nuovo carcere di Bancali ha un’efficiente e all’avanguardia sezione del 41bis, per i detenuti che sono in regime carcerario speciale, come coloro accusati o condannati per reati mafiosi. Cosa ne pensa del 41bis, su cui tanto si continua a discutere?
– Il 41bis, il cosiddetto regime di “carcere duro” o “carcere ostativo“, è un tema attuale, che ha coinvolto anche la Comunità Europea. È di qualche giorno fa la sentenza del Corte europea dei diritti umani che impone all’Italia di riformare la legge sul 41bis, perché viola i diritti umani.
L’Italia, dal canto suo, dovrebbe semplicemente attuare l’articolo 27 della Costituzione, in cui è scritto che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato“. Quindi, anche chi ha compiuto efferati crimini deve giustamente espiare la pena per la quale è stato condannato, ma avendo sempre garantita la dignità dell’essere umano. Allo stato attuale, il 41bis è una tortura e va contro l’articolo costituzionale citato.
Nel percorso che dovrebbe essere costruito per una completa riabilitazione del detenuto, fondamentali sono il metterlo in condizione di prendere coscienza e di pentirsi dell’errore compiuto e potenziare la cultura scolastica, per prevenire una deriva criminale, perché preoccupante è la percentuale di condannati non scolarizzati.
Per concludere, la mia opinione è che il carcere duro, quel “fine pena mai”, debba essere quantomeno rivisto, perché “occhio per occhio fa diventare solo ed esclusivamente più ciechi“, come diceva Gandhi, che tra l’altro era anche un ottimo avvocato.