Sergio Ramelli era uno studente di diciotto presso l’I.T.I.S. “Molinari” di Milano, che venne aggredito vigliaccamente da un commando di “Avanguardia Operaia”. La sua unica colpa era quella di aver condannato le “Brigate Rosse” in un tema svolto in un compito in classe. Alcuni studenti di quell’istituto riuscirono a sottrarre quel tema al professore, lo affissero nella bacheca scolastica e venne usato come “capo d’imputazione” in un vero e di “processo politico” nel quale Sergio Ramelli veniva accusato di essere fascista.
Il 13 marzo 1975 Sergio Ramelli dopo aver parcheggiato il suo motorino poco distante stava ritornando tranquillamente a casa sua, in via Amadeo a Milano. Nel tragitto Ramelli viene assalito e colpito più volte al capo con delle chiavi inglesi. A seguito dei colpi ricevuti, perse i sensi e fu lasciato esangue al suolo.
Questa è la testimonianza di Marco Costa, uno degli assassini, durante il processo per il suo omicidio. «Ramelli capisce, si protegge la testa con le mani. Ha il viso scoperto e posso colpirlo al viso. Ma non voglio sfregiarlo e spezzargli i denti. Gli tiro giù le mani e lo colpisco più volte al capo con la chiave inglese. Lui non è stordito, si mette a correre ma trova il suo stesso motorino fra i piedi e inciampa. Io cado con lui. Lo colpisco un’altra volta. Non mi ricordo dove: al corpo, alle gambe. Non so…». Poi continua la descrizione: «Una signora che passava allora urla: “Basta, lasciatelo stare! Così lo ammazzate!”. Allora scappo perché io dovevo essere l’ultimo a scappare».
Poi Giuseppe Ferrari–Bravo, un altro degli assassini, aggiunge: «Aspettammo dieci minuti e mi parve un’esistenza. Guardavo una vetrina ma non dicevo nulla. Ricordo che arrivò e parcheggiò il motorino. Marco mi dice: “Eccolo”, oppure forse mi diede solo una gomitata d’intesa. Ricordo le sue grida. Ricordo, davanti a me, un ragazzo che vacilla sbilanciato. Lo colpisco una volta. O forse due. Ricordo una donna, da un balcone, che grida: “Basta!”. Dura tutto pochissimo… Avevo la chiave inglese in mano e la nascosi subito sotto il cappotto. Fu così breve che ebbi quasi la sensazione di non aver portato bene a termine il mio compito. Non mi resi affatto conto di ciò che era accaduto…»
Gli assassini erano tutti figli di buona famiglia con l’hobby della ribellione che avevano individuato il nemico da eliminare in uno studente di soli 18 anni di estrazione popolare (e questo, forse, ai loro occhi lo rendeva ancora più colpevole). All’Ospedale Maggiore fu sottoposto a un delicatissimo intervento chirurgico della durata di circa cinque ore nel tentativo di ridurre i danni causati dai colpi inferti alla calotta cranica.
Il decorso post-operatorio di Sergio Ramelli fu caratterizzato da periodi di coma alternati ad altri di lucidità. Le complicazioni cerebrali comunque indotte dall’aggressione lasciavano i sanitari dubbiosi sul pieno recupero delle funzionalità fisiche.
L’agonia durò quarantotto giorni dopo di che Sergio Ramelli cessò di vivere il 29 aprile 1975, diventando per la sua generazione un simbolo di quell’epoca nella quale ammazzare chi la pensava in modo differente era considerato normale.
Questo fatto sconvolse l’opinione pubblica. Un giovane studente veniva trucidato per un tema scolastico.
Il Presidente della Repubblica, Giovanni Leone, inviò una corona di fiori.
Ai funerali partecipò l’allora segretario del M.S.I., Giorgio Almirante che, con l’onorevole Franco Servello dopo le esequie, portò personalmente la bara fuori dalla chiesa.
Per la cronaca: gli assassini e i complici, all’epoca studenti di Medicina, scontarono solo pochi anni di carcere e dopo divennero medici, docenti e ricercatori.
Oggi ricordiamo il sorriso di Sergio spezzato quel giorno e la purezza di morire a diciott’anni per un’idea.