Il colpo inferto dalla pandemia al commercio continua a decimare le imprese sarde. Secondo i dati del registro delle imprese rielaborati dall’osservatorio Confesercenti, nel 2021 in Sardegna hanno chiuso 1.325 attività di commercio al dettaglio: quasi un commerciante ogni mille abitanti ha abbassato definitivamente la serranda.
Le 923 nuove iscrizioni hanno appena rallentato l’emorragia, facendo segnare un saldo negativo di 380 attività, con la perdita di 700 posti di lavoro.
L’analisi è stata diffusa a Sassari, nell’aula magna dell’Università, in occasione della presentazione dello studio “Liberalizzazione del commercio: la sfida della re-regulation” realizzato da Uniss e Confesercenti, presenti il rettore Gavino Manaca e l’ordinario di Diritto amministrativo Domenico D’Orsogna, e il presidente regionale dell’associazione di categoria, Roberto Bolognese.
Lo studio sulla natalità e mortalità delle imprese del commercio rileva che a salvarsi sono stati solo i bar e i ristoranti che, con 496 aperture e 474 chiusure, hanno fatto registrare un saldo positivo di 22 attività. La media nell’Isola parla di 0,8 imprese chiuse ogni mille abitanti. Dato che peggiora sensibilmente nelle città con più di 30 mila abitanti, dove la media è di 1,2 imprese chiuse per mille abitanti. L’incidenza peggiore si registra a Olbia, con 1,7 chiusure ogni mille abitanti.
Anche i dati medi regionali per i pubblici esercizi cambiano sensibilmente nei centri con oltre 30 mila abitanti. A una media di 0,3 chiusure per mille abitanti, si contrappongono i dati di Alghero (0,54) e Olbia (0,44). “Il comparto viene da decenni di difficoltà e per ripartire necessita di risorse importanti e continuative – spiega Confesercenti – La manovra di bilancio regionale per il 2022 ha previsto uno stanziamento di 30 milioni di euro a sostegno degli investimenti nel commercio e pubblici esercizi, la speranza è che non si tratti di uno stanziamento isolato”.
“Il comparto commerciale della Sardegna ha bisogno di liberalizzazione, non intesa come deregulation, ma come re-regulation”. Lo sostengono Confesercenti Sardegna e Università di Sassari, che a supporto di tale tesi, hanno presentato nell’aula magna dell’ateneo sassarese lo studio “Liberalizzazione del commercio: la sfida della re-regulation”, realizzato in collaborazione tra i due enti. A presentare l’analisi sono stati il rettore dell’Università, Gavino Mariotti, il presidente regionale di Confesercenti, Roberto Bolognese, e Domenico D’Orsogna, professore ordinario di Diritto amministrativo dell Uniss.
Il documento d’inquadramento giuridico scaturito da questa collaborazione chiarisce che liberalizzazione, in senso giuridico, non significa rimozione di qualsiasi vincolo e di ogni limite, ma soltanto dei vincoli e limiti “non ragionevoli ovvero non adeguati ovvero non proporzionati rispetto alle finalità pubbliche”, come spiega il legislatore, e non fondati su “motivi imperativi di interesse generale” quali l’ordine pubblico, la sicurezza, la tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente (incluso l’ambiente urbano) e del patrimonio culturale.
Lo studio propone soluzioni per superare il cosiddetto “decreto Bersani”, datato ormai oltre 20 anni, e la direttiva Bolkestein del 2006, in quanto è evidente che, “dopo più di due anni di pandemia, è forte l’esigenza di una riflessione aggiornata sul tema”, precisano D’Orsogna e Bolognese. “Liberalizzazione del commercio non è sinonimo di deregulation, ma di re-regulation. Ciò impegna in primo luogo i pubblici poteri chiamati a intervenire in modo corretto e adeguato”. Il decreto Bersani, infatti, insieme all’introduzione del principio della liberalizzazione delle attività commerciali, aveva previsto anche una notevole attività attuativa delle Regioni e degli Enti Locali, che è rimasta invece per lo più sulla carta, perché ha prevalso nei fatti la logica del laissez faire e l’errata convinzione che “libertà d’impresa” significhi assenza di regole e che “liberalizzazione” sia sinonimo di “deregulation”. (Ansa)